Oggi nessun marinaio, dopo il suo turno di guardia trascorso in massacrante lavoro, si butta a dormire tanto stanco da non togliersi i vestiti bagnati fradici per venir magari, poco dopo, richiamato in coperta per improvvise emergenze perdendo preziose ore di sonno; nessun marinaio, dopo pochi giorni di navigazione in alto mare, mangia solo carne salata e galletta infestata dai parassiti con il rischio dello scorbuto; nessuno beve acqua rigorosamente razionata e per di più andata a male; nessuno viene a trovarsi in posizione di rischiare la vita in alto su alberi oscillanti, pennoni scivolosi e vele gonfie di tempesta manovrandole proprio per salvarsi la vita; nessuno si presta ai faticosi lavori di carico e scarico propri delle compagnie portuali od agli impegnativi lavori di raddobbo da cantiere richiesti all'equipaggio per risparmiare le relative spese; nessuno passa mesi e mesi lontano da terra con intorno soltanto sconfinate distese di cielo e di mare troppo spesso imbronciate quando non burrascose; nessuno è pagato tanto poco per fare una vita tanto irta di pericoli, stenti e sacrifici. Non al giorno d'oggi.
Eppure qualcuno c'è stato in un passato non tanto lontano, anzi più d'uno. Erano i marinai di una volta, quelli dei velieri di lungo corso, del Capo Horn, una razza marina che si stenta a credere sia esistita ed abbia potuto resistere a situazioni del genere. Non per niente un antico detto recitava che gli uomini si dividevano in tre categorie: i vivi, i morti e coloro che andavano per mare. Una razza scontrosa e fedele, vigorosa e fiera -- ha detto Joseph Conrad -- capace di ogni rinuncia e dedizione, con i suoi riti, i suoi usi, il suo coraggio. Uomini che il mare lo conoscevano per davvero perché vivevano ed operavano a contatto diretto con esso, con i suoi capricci, con le sue apparenti blandizie, con le sue violenze, con le brezze o con le bufere lungo gli inevitabili "Quaranta ruggenti" ed i "Cinquanta urlanti" delle latitudini oceaniche australi che alzavano ondate montagnose e dirompenti che salivano in coperta sotto cieli percorsi da minacciose nubi plumbee scioglientisi in pioggia battente, grandine martellante e nevischio.
Oppure nelle calme equatoriali piatte e senza un filo di vento, parimenti disperanti. Il tutto senza alcun presidio sanitario, senza possibilità di cure in caso di malattia, che in certe zone poteva essere il beri-beri o la febbre gialla (ma anche l'influenza "spagnola" del 1918), dovendo inoltre fare i conti con i topi, gli scarafaggi, le cimici e perfino con le zanzare.
Ineluttabili i fattori tecnici ed umani con un complesso di attività fortemente condizionate dall'ambiente e senza un momento di requie. Grande la fatica fisica, grande la sofferenza, grandi i pericoli. Navigazione condotta in alto mare con rara abilità sulla sola base di calcoli astronomici o stimati, senza possibilità di verifiche offerte dai punti salienti di terra, col solo aiuto del sestante, del prezioso cronometro, di una bussola di dubbia compensazione, del barometro e nulla più. Un'arte sorretta da esperienze incredibili, da intuizioni e da colpi di fortuna.
Non sarà mai abbastanza riconosciuto quanto merito, a beneficio del progresso e della civiltà affermatasi tra la seconda metà del 1800 ed i primi decenni del 1900, ha rivestito il servizio prestato dalla gente della marineria velica nei percorsi oceanici più lunghi e sperduti dall'Europa all'Australia, all'Oceania ed alle coste occidentali delle Americhe, con l'obbligato passaggio del leggendario Capo Horn, o scapolando il Capo di Buona Speranza od i capi della Nuova Zelanda. Percorsi tanto lunghi che le navi a vapore, le quali avevano sottratto ai velieri i ricchi traffici misti viciniori, non potevano ancora affrontare per ragioni di autonomia e mancanza di punti di carbonamento. Ma la marineria velica era giunta, dopo tanti secoli, ai suoi ultimi anni di attività cercando di adeguarsi ai nuovi tempi passando dalle costruzioni in legno a quelle in ferro che rendevano possibile l'aumento della portata di stiva, rinunciando infine al fattore velocità e conseguentemente diminuendo all'osso il numero dei marinai e degli ufficiali, pochi uomini impiegati perciò senza requie, con disciplina ed impegno quanto mai incombenti, imposti talora con la forza, con le vie di fatto accettate comunque perché s'era sempre fatto così, come manifestazione incontrastabile e rituale. L'arrivo in porto dava luogo usualmente alla diserzione di molti marinai, o desiderosi ingenuamente di migliorare la loro condizione, od allettati con generose bevute da sensali senza scrupoli che facevano i loro affari procurando uomini alle navi in partenza bisognose di uomini, quali che siano stati.
(dal sito web di Aldo & Corrado Cherini)
DIMENTICATA LA MARINERIA VELICA DI LUNGO CORSO
I commenti sono chiusi.